“Nonostante il freddo qui l’aria è benefica e balsamica come non l’ho mai respirata, credo che qui si dimentichi il resto del mondo e si desideri star qui con i propri cari, vedere e respirare. Abitiamo sul mare con una vista meravigliosa e credo a ciò che dicono i napoletani, che il buon Dio quando vuol prendersi un’ora piacevole si affaccia alla finestra del cielo e guarda qui. E se il re di Napoli, mi nominasse arcivescovo da qualche parte, o se il papa mi permettesse di avere te e i miei cari accanto, potresti venire qui con i nostri bambini, o meglio verrei a prenderti io e vivremmo qui…”
(da una lettera scritta da Johann Gottfried Herder a sua moglie Carolina, durante un viaggio a Napoli, nel 1789)
Può sorprendere ciò che succede quando si assiste a una puntata del serial Gomorra. Prendiamo come esempio una puntata in cui un piccolo camorrista viene mandato all’estero in una pericolosa missione: deve acquistare una consistente partita di droga da un famigerato trafficante napoletano alla cui madre lui una volta ha incendiato la casa. Ebbene, anche se non appartieni a quei consorzi umani che vanno sotto il nome di clan, non sopporti le loro vessazioni ostentate nelle strade come fossero gesta di eroi, e ti disgustano i loro efferati omicidi che devastano la tua speranza che un giorno si possa vivere meglio in questa meravigliosa città, seguendo le sue vicissitudini succede che ti prende quello stesso tipo di empatia e di immedesimazione che scattano, guardando sceneggiati più tradizionali, per la figura dell’eroe che salva vite umane o si immola per scongiurare eccidi e catastrofi. Ti ritrovi a soffrire per i pericoli che corre il camorrista dimenticando completamente che lui è uno di quelli che vendono la morte in bustine.
Se si analizza la sceneggiatura, si ritrovano, non a caso, tutti gli espedienti colloquiali e scenografici che caratterizzavano i vecchi eroi e che creavano il nostro immaginario del valoroso, solo che qui, scomparsa completamente la ‘moralità’ del protagonista, ci si ritrova ‘complici emotivi’ di modelli che celebrano coloro che a pochi passi dalle nostre case, realmente, devastano con le loro mostruosità ogni pacifica convivenza.
È una vera e propria colonizzazione dell’immaginario, che procede di pari passo con quelle che si svolgono nelle strade delle nostre città e dei nostri paesi, per esempio quando si ricostruirono le scenografie e i rituali usati per le celebrazioni papali per portare omaggio alla figura di un camorrista defunto, come nel caso del funerale del famigerato Casamonica, o di un boss incarcerato.
Versioni aggiornate di una colonizzazione dell’immaginario iniziata da molto tempo e mutata di pari passo con l’evolversi dell’industria discografica, dello spettacolo, dell’intrattenimento, dell’informazione. Per risalire a sue fasi remote, si pensi a Mario Merola quando rappresentava nei teatri napoletani la sceneggiata Lacreme Napulitane, che nell’antico immaginario descriveva il dramma dell’emigrazione agli inizi del secolo scorso, facendo diventare l’emigrante, che scrive ai suoi cari una lettera triste e commovente, un borghese che espatria per motivi privati (tradimento, omicidio), sostituendo la memoria storica che la gente portava nella propria coscienza fino a quel momento con tutt’altra figura.
Si pensi, in tempi più recenti, al fenomeno neomelodico, iniziato con le poesie del famoso camorrista Luigi Giuliano finito in carcere per svariati omicidi, in cui si cantano i padrini, “i sistemi”, i killer e le faide, con gli stessi stilemi musicali che tradizionalmente rappresentavano l’amore, la passione o l’estasi davanti ai nostri suggestivi panorami.
E nonostante ciò i neomelodici trovano tanto favore anche tra persone cosiddette per bene, lontane dagli affari e dagli omicidi della malavita, che fingono di non vedere che a Napoli si uccide con gli stessi atteggiamenti e modalità dei protagonisti di quelle canzoni. O alle quali realmente sfugge il fatto che la cultura della bieca violenza, infiltrandosi tra le pieghe del folklore partenopeo, lo ha colonizzato con figure e modelli criminali mai appartenuti alla tradizione artistica napoletana. Eppure, quando dalle loro auto ti sparano a mille decibel le gesta dei loro brutali idoli, e Reginella e Je te voglio bene assai non sembrano mai passate da qui, qualche dubbio dovrebbe pur sorgere.
Certo sappiamo tutti che prestiti, appropriazioni, mistificazioni e infiltrazioni culturali sono da sempre moneta corrente nelle culture umane, basti guardare la basilica di San Paolo Maggiore a Napoli dove le colonne dell’antico tempio dei dioscuri, protettori della città, sorreggono il frontone della chiesa. Ma se un tempo si poté dire Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio, i vincitori d’oggi sembrano interessati soltanto a trasformare ogni espressione e comunicazione umana, quella del camorrista e di chi ne odia la ferocia, quella dell’assassino e di chi ne subisce la violenza, in un unico urlo assordante, abbrutito e indistinto.
Franco Cel8